sabato 25 dicembre 2010

Una generazione abbandonata

Ragazzi ribellatevi. Questo è l'invito che Alfredo Reichlin rivolge ai giovani.
Non è nella mia indole istigare a reagire, ma è doveroso riconoscere l'esistenza di una questione generazionale non più ignorabile.
Benché per me sia chiaro che dovrò lavorare finché ne avrò le forze (rispetto ai 52 anni di mio padre), che il mio reddito da pensionato sarà inferiore al 50% del reddito da lavoratore (rispetto all'80% di mio padre), riconosco che ho avuto la possibilità di fruire di condizioni che mi hanno permesso di avviare il mio percorso di vita. Ma per chi è venuto dopo di me la situazione è peggiore.
Le generazioni che si stanno approssimando alla vita adulta stanno vivendo il dramma di un futuro senza certezze. In particolare su codeste generazioni stanno confluendo gli esiti di decenni di scelte sociali e individuali basate su ipotesi di continuo e crescente benessere e, venuta meno la 'crescita', chi non ha diritti già acquisiti, cioè i giovani, ne pagano le maggiori conseguenze. Questa deriva sta creando una profonda ingiustizia.
Viene soprattutto alla luce - come afferma Valentina Strada – che è stato perso il valore del lavoro, la sua dignità, il suo ruolo nella crescita individuale e nella società. La congiuntura economica, quella che ha ridotto i posti di lavoro e, contestualmente, allungato la vita lavorativa delle persone, impone di ripensare il lavoro: divenuto risorsa scarsa perde il suo essere scontato, diritto acquisito e riemerge il valore di strumento abilitante lo sviluppo della vita.
Ma è ancora assente una assunzione di responsabilità di tutto questo, ancor meno l'impegno a farsene carico. Allora mi associo a Reichlin auspicando che chi sta subendo tali conseguenze faccia sentire la sua voce, anche la comprensibile rabbia.

Foto: abbandono

mercoledì 8 dicembre 2010

L'irrompere della scorrettezza

E' stata una amica, a partire da una discussione sul matrimonio, a farmi riflettere su come oggi sia stato sdoganato, quasi normalizzato, l'inadempimento. La separazione e il divorzio, infatti, sono diventati una opzione ed hanno perso la natura di 'accordo disatteso'. Anche sul fronte del linguaggio si riscontra lo stesso fenomeno: il rapporto tra le parole e la loro veridicità - come afferma Paolo Pombeni - si sta incrinando. Tutti possono dire di tutto, anche le sciocchezze come quella di 'fregarsene delle prerogative del Capo dello Stato'. E, purtroppo, senza 'pagare pegno'.
Ciò vale per ogni codice e regola, individuale e sociale, esplicita ed implicita. Vengono progressivamente meno quei riferimenti abilitanti la comunicazione, il capirsi, l'accordarsi, l'integrarsi, .... Siamo, invece, di fronte a chiare ed evidenti invasioni di campo. Irrompe la scorrettezza. Barbara Spinelli parla di via libera allo scandalo. Anzi lo scandalo è divenuto normalità, il tremendo s'è fatto banale e scuote poco gli animi.
Questo è il contesto nel quale ci è dato di vivere: costretti a muoverci nel perimetro dell'osceno. Ma se non possiamo scegliere il contesto di vita (anche se rientra nell'ordine del possibile lasciare il 'belpaese'), rimane l'imperativo, per quel che si può, di resistere a questa deriva con la speranza che all'orizzonte si apra nuovo spazio di senso e significato, nuove possibilità. Un resistere, quindi, né oppositivo e né pregiudiziale, ma disposto a cogliere e recepire il 'frutto delle cose'. Anche perché - come afferma Marco Paolini - non ho mai pensato che nella vita, per procedere, si debba necessariamente andare in linea retta. La presenza di itinerari un po' sghembi è costitutivo della vita, ancor più in una fase di profondo cambiamento come quella attuale.

Foto: Scandalo

venerdì 19 novembre 2010

Il tempo del limite

Le risorse naturali si stanno esaurendo, non c'è posto per i rifiuti, le casse dello stato sono vuote, mancano i finanziamenti, non si arriva a fine mese.
Il 'limite' si presenta ineluttabile di fronte a noi. Rimaniamo disarmati, disorientati. Eppure il limite è costitutivo della vita, dell'essere umano.
La cultura occidentale, quella che ci ha alimentato, è più orientata al fare che all'attesa, al parlare che al tacere, al 'fuori' che al 'dentro', allo straordinario che al quotidiano; una cultura che si presenta ambiziosa e presuntuosa, sempre proiettata verso la crescita e lo sviluppo. Il limite è esorcizzato, è tabù. Lo dimostra - come affermano Ilvo Diamanti e Luce Irigaray - l'annullamento del silenzio: nessuna indulgenza e nessuna tolleranza, occorre sopirlo in fretta, anche di fronte alla morte.
Ma, oggi, il limite si pone inesorabilmente di fronte a noi, risulta inevitabile, non riusciamo più a tenerlo a bada. E la nostra cultura è disarmata e inattrezzata ad affrontarlo, rischiando di soccombere di fronte alle sue richieste. E' il declino.
Dovremmo cambiare punto di vista, cercare altri riferimenti. 'Abbassare il tiro', arretrare, fare un passo indietro. Fermarsi.
Non sarà una soluzione, ma sicuramente rappresenta una salutare boccata d’aria fresca il semplice restare lì, fedeli nel poco: tener conto degli altri, accettare di condividere ciò che si possiede, affrontare la sofferenza, il dolore e la morte come parti integranti di una vita che vale la pena di essere vissuta; oppure l’umile bellezza del vivere gli uni accanto agli altri e gli uni con gli altri, solidali nel condividere la comune umanità. E' - sostiene Enzo Bianchi - la grandezza dei piccoli gesti quotidiani: uno sguardo, un tocco delicato, una parola sommessa, un pasto preparato con cura.

Foto: limite

sabato 6 novembre 2010

L'ideologia della condivisione

Bisogna condividere. E' un imperativo, un assoluto.
Questo concetto ha avuto fortuna nell'ambito del cattolicesimo, in particolare del cosiddetto catto-comunismo - pensiamo alla fortunata frase di Tonino Bello 'convivialità delle differenze' - per arrivare poi a permeare il gergo quotidiano, anche quello professionale e istituzionale.
Il significato etimologico rinvia alla "adesione, partecipazione a idee o sentimenti altrui". Insomma, allo stare e al sentire in profondità l'altro per quello che è; un atto, insomma, di profondo riconoscimento.
Il termine appare oggi usurato, abusato, svuotato; ha perso consistenza diventando mera tecnica per stare ed agire efficacemente 'dentro le cose di questo tempo': l'altro e la sua diversità, di fatto, non sono valore ma ostacolo da aggirare abilmente.
Il nostro tempo, articolato e complesso, ci pone inesorabilmente di fronte al concetto di limite: l'attrezzatura teorica per affrontare la diversità, come afferma Umberto Curi, si sta clamorosamente indebolendo, al suo fascino si sostituisce un senso di nausea e di estenuazione. Non reggiamo più la diversità e abbiamo il bisogno di allontanarla, tenerla distante, anche negarla. La democrazia stessa, afferma Angelo Panebianco, risulta incapace di contenere tutta questa quantità e qualità di diversità.
Lungo il mio percorso spesso ho tentato di mettermi di fronte alla diversità: in alcuni casi ci sono riuscito, in altri ho fallito. Sicuramente non ci sono riuscito con gli zingari: mi sono accostato a questo 'mondo', ho provato a starci dentro sentendomi più tollerato che accettato, fino ad arrendermi accettando di non stare dove nessuno mi voleva.
Non ritengo sia un dramma non riuscire ad accogliere la diversità, è più pericoloso assumere una posizione ideologica: dal 'dagli allo straniero' all' 'amore incondizionato senza se e senza ma'.

giovedì 21 ottobre 2010

Non c'è più tuning

Anch'io, qualche anno fa in una via centrale di Milano, ho oltrepassato velocemente una donna appoggiata ad una vetrina circondata di urina. Benché a disagio, ho fatto finta di niente. Sono andato oltre.
La scena era fuori posto. Come afferma Elena Loewenthal si è trattato di un evento consumato in un luogo di passaggio, di transito; un non-luogo che non appartiene a nessuno e dove nessuno ha nulla da rivendicare, un territorio neutrale dove siamo tutti di passaggio, incapace quindi di generare conflitti.
Le 'cose' accadono sempre più dove non devono accadere: circostanze comuni con esito agghiacciante e imprevedibile. Ci stiamo abituando ad aspettarci 'di tutto'. E anche quando accadono al loro posto, attraverso la tecnologia l'evento diventa a portata di mano.
Scena e circostanze stanno perdendo l'usuale 'accordatura' e tutto appare mescolato in un indistinto disorientante.
Non mi preoccupa l'evento violento o drammatico in sé - che è sempre esistito e sempre esisterà - piuttosto mi interroga l'evidente rottura degli equilibri consolidati. Ciò alimenta la sensazione che ogni cosa possa accadere, che ogni comportamento fuori standard possa essere un pericolo, capace di scatenarsi con una facilità spropositata, come se fosse stato lì in agguato ad aspettare il momento propizio. Ma non bisogna scordare che il venir meno di qualcosa è sempre il presupposto per 'altro', per ciò che deve venire.
In questa situazione trova una sua comprensione l'andare oltre: 'non vedere' e 'non sentire' sono la reazione più spontanea al disorientamento, alla incapacità di rispondere all'inatteso.

Foto: tuning the arp (2/2)

giovedì 7 ottobre 2010

Non ho scelto in quale epoca vivere...

Da questo punto di vista non mi ritengo particolarmente fortunato: sento gli ultimi decenni più 'comodi' che 'interessanti', più orientati a sostenere quanto già c'era - talvolta anche ad oltranza - che ad intuire il nuovo, a costruire l'emergente. Nell'ultimo periodo, in particolare, sta emergendo un lento e progressivo imbarbarimento.
Questi processi storici procedono per loro conto e a nulla vale ogni forzatura; non resta che accoglierli per quel che sono, comprenderli, per quel che si può, e sintonizzarsi sulle loro lunghezze d'onda così da evitare di chiedere ciò che non si può ottenere.
Alessandro Baricco sostiene che è in corso una mutazione che non può essere spiegata con il normale affinarsi di una civiltà, ma sembra essere, più radicalmente, il tramonto di una civiltà e, forse, la nascita di un'altra. Mi piace l'idea che si apra una nuova fase della storia, questo pensiero attiva in me la speranza - spero non sia illusione - di poter mettere a disposizione le mie energie e le mie risorse in modo più pieno e, soprattutto, rappresenta uno sbocco di senso al disordine che percepisco attorno a me. Infatti, è veramente difficile assistere al trionfo dell'ignoranza e dell'oblio, allo sfarinarsi della statura civile, della tensione morale e della tenuta culturale. Ciò può essere più facilmente accolto se si considera questi segni di imbarbarimento come decorso fisiologico, come una sorta di scarico chimico che la fabbrica del futuro non può fare a meno di produrre.
Anche se tutto ciò fosse vero, non c'è alcuna garanzia circa la bontà dell'esito della mutazione; non è detto che ciò che deve venire sia migliore di quanto già c'è.
Chi vivrà vedrà.

martedì 28 settembre 2010

Molti vanno al mare ma pochi nuotano ...

, molti fanno i turisti ma pochi visitano, molti riempiono o rincorrono la vita ma pochi vivono.
La metafora del 'nuotare in mare' di Paola Mastrocola è efficace per evidenziare una posizione dello 'stare in vita': nuotare e basta, non arrivare da nessuna parte e non dimostrare niente a nessuno, quindi non andar veloci e men che mai gareggiare.
Questa posizione è un inno al vivere. Vivere nell'accezione di sentire sulla pelle 'cose e persone', soprattutto se stessi e coloro che, per scelta o per 'eventi', ci stanno accanto: un mistero irriducibile. E' la contrapposizione ad ogni assolutismo e ad ogni determinismo: alla presunzione di saper 'cosa si è' e 'dove si deve andare', alla vita spesa a 'marcar tappe' come in un videogioco, al 'produrre' e all''affermazione' come indicatori della propria realizzazione.
Modi di 'stare al mondo', questi ultimi, che presentano il vantaggio di essere pronti a disposizione, ad alta riconoscibilità, ma non privi di rischi e costi: soprattutto quello di ritrovarsi a mani vuote, constatare cioè di aver trascorso la propria vita 'fuori' e non 'dentro', di non aver dato, quindi, il proprio contributo. Conto da pagare salatissimo.
E difficile scegliere e reggere la posizione del lento scorrere dell’acqua su di sé, del portare i pensieri a respirare tra le onde. Ognuno, in quanto artefice di ciò che è, si può attrezzare creando buone condizioni: fisiche (luoghi, spazi, situazioni, ...) e, soprattutto, psichiche (ritmi, confronti, ... e, soprattutto, compagni di viaggio).

sabato 11 settembre 2010

Siamo responsabili di ciò che facciamo ...

, ma anche di ciò che lasciamo accadere intorno a noi. Anche l'omissione comporta responsabilità. Ma fino a che punto? Fino a che punto esporsi, 'pubblicare', cioè - come dice la stessa parola - compiere un gesto pubblico?
Vito Mancuso afferma che esprimere pubblicamente il proprio pensiero è un privilegio abbastanza raro. Non tutti se lo possono permettere: primum vivere deinde philosophari. Questa antica massima di saggezza vale per tutti, nessuno è chiamato a fare l'eroe. Questo limite, però, deve essere coniugato con l'obbligo morale a provare a dare, per quel che si può, il proprio contributo al mondo, a rendere migliori noi stessi e ciò che ci circonda. Per quanto riguarda la modalità, concordo con Mancuso, ognuno sceglie le battaglie ideali come meglio crede.
Gli estremi possibili vanno dal 'donchisciottismo' alla 'deresponsabilizzazione'. In mezzo a questi poli ognuno sceglie dove stare, con la misura che riesce ad attuare. L'efficacia non sta nel 'dove ci si pone', ma nella giusta misura rispetto a se stessi e agli altri. E' difficile, è uno stare su un crinale.
Fatico ad accogliere chi si pone agli estremi senza misura, che non significa necessariamente stare al centro: chi, per partito preso, assume la posizione di una parte e chi si adagia, come afferma Michele Serra, sul rituale conformista, rassicurante solo per chi ha la necessità di sentirsi sempre d'accordo con chi è sempre d'accordo con lui.

domenica 29 agosto 2010

Nessuno è solo se stesso ...

...: il riconoscimento può avvenire sia per ciò che si è, ma anche per ciò che si rappresenta.
Viviamo di riflesso altrui, quello di chi - per parentela o adesione - ci ha accompagnato e ci accompagna nella vita. Per esempio io sono stato 'figlio di ...', identificato con il 'ceppo familiare dei ...', successivamente 'allievo di ...'. Sono legami e appartenenze inevitabili che possono essere funzionali alla propria emancipazione se prevedono l'uscita di scena di 'genitori e maestri'.
Si può brillare di luce propria (per quel che si può), oppure adagiarsi sul riflesso altrui, assumendo la funzione di megafono e amplificatore di suoni e voci d'altre identità. Capita infatti di incrociare persone che non sono solo loro: toccarli significa toccare altro. E se questo altro è forte e potente, diventano intoccabili. E' questa una posizione dalla quale si possono trarre favori e benefici, ma densa di rischi per se stessi (mettere le proprie sorti 'fuori da sé') e per gli altri (inquinare il flusso delle relazioni).
L'abdicazione alla individuale capacità creativa infonde in me tristezza; la collusività dei rapporti mi infastidisce.
Chiara Saraceno, focalizzando l'attenzione sui legami parentali, evidenzia gli effetti del venir meno dei confini tra le persone: l’intimità che diviene mancanza di limite e il senso di appartenenza che diventa pretesa di possesso. E' questa la condizione nella quale possono svilupparsi comportamenti e aspettative ove sparisce il confine tra la solidarietà e l’abuso, tra il prestare aiuto e il favorire, anche a scapito delle regole e del bene comune.

sabato 14 agosto 2010

L'Italia ripudia la guerra ...

... Questo riporta l'art. 11 della Costituzione Italiana.
La presenza dell'Italia in Afganistan contraddice tale dettato. La realtà supera e smentisce la norma, in questo caso l'ordinamento costituzionale. Inutile e velleitario ogni maquillage volto ad assegnare nomi di pace a ciò che è guerra; inutile la retorica del ministro della difesa che - come afferma Lucio Caracciolo - suona ormai peggio che falsa, offensiva per i nostri caduti e per la nostra democrazia.
Analizzando la situazione creatasi in Afganistan, l'autore parla di convoglio impazzito, con diversi vagoni già deragliati. Il problema, dal punto di vista istituzionale, è diventato come uscire da questo pantano senza troppo imbarazzo, senza farsi troppo del male.
La guerra quindi c'è, c'è sempre stata, è una delle costanti della storia dell'uomo. Spesso è stata 'cantata' e 'celebrata' (Inno di Mameli incluso). Meglio, la guerra c'è in quanto l'elaborazione patologica del conflitto non è mai smessa. E, benché patologica, è parte di noi stessi, è costitutiva del nostro vivere. Auspicare la sua eliminazione è illusorio, deplorare la sua presenza ideologico.
Mai, però, la guerra è inevitabile: sempre si può mirare all’invenzione della possibile armonia (Gino Pagliarani). E, di fronte all'impotenza, sperare di non incontrarla lungo il nostro percorso.

Foto: Fratelli d'Italia

sabato 31 luglio 2010

Quando si rompe il ritmo delle cose ...

..., esse, nella loro semplicità, risplendono come oro nel mondo.
Aldo Moro nel corso della sua prigionia scrive alla moglie - deceduta recentemente. La condizione di prigioniero e la minaccia di morte risulta liberante, fanno uscire allo scoperto ciò che conta: l'amore ricevuto e donato. Esprime, infatti, riconoscenza e affetto per tutti coloro che lo hanno amato fino ad allora, al di là di ogni merito, che al più avrebbe consistito nella capacità di riamare.
E' il riconoscimento dell'essenziale, delle cose semplici, ripetitive e quotidiane: l'esserci in salute, la presenza delle persone care, l'esperienza vissuta, l'attività quotidianamente svolta ... anche la camicia da ritirare in lavanderia.
Solo una rottura riesce a svelare tale valore. Rottura di un ritmo ben scandito, funzionale al fluire delle cose ma non a viverle, rassicurante nel dare riferimenti ma incapace di rendere felici.

venerdì 16 luglio 2010

Il 'contagio' è un fenomeno potente ...

..., più potente di quanto si pensi: non si limita alla malattia infettiva ma abbraccia il comportamento, anche il modo di fare e di pensare. Siamo indotti, cioè, a compiere gli atti di coloro che ci circondano, ad allinearci alle prassi prevalenti. Questa diventa la normalità.
Jonny Costantino, riferendosi all'esperienza del Terzo Reich, parla di 'mediocrità' come causa della accettazione del compiere crimini in nome e per conto del Führer; la figura di Eichmann è esemplare nell'esprimere l'incapacità di pensare. Riprendendo le parole di Hannah Arendt: ‘… egli non fu né il primo né l’ultimo ad essere rovinato dalla modestia’.
Goffredo Fofi, pensando all'Italia del 2010, riprende il concetto di 'stupidità' di Dietrich Bonhoeffer; una stupidità, afferma l'autore, che ci coinvolge tutti, catturati dal binomio diventato indissolubile, che ci ha drogati e pervertiti: il consumo e il consenso.
In siffatte fasi della storia rischia di non trovare spazio l'umanità, la coerenza, l'eticità, il pudore, .... Si manifesta il rischio, quindi, di lasciarci spingere al disprezzo per gli uomini, ma facendo ciò - afferma Fofi - cadremmo esattamente nello stesso errore dei nostri avversari. Che fare, allora?
Possiamo interrogarci su 'che cosa sta accadendo', anche riconoscere la propria parte di 'stupidità'/'complicità'; possiamo assumere una posizione di speranzosa attesa con la convinzione che il male si rivela - e spesso in un arco di tempo inaspettatamente breve - stupido e incapace di raggiungere i suoi obiettivi; possiamo ascoltare la sofferenza degli uomini e delle donne e meno i dichiarati, anche le azioni; possiamo, ancora, alimentare i 'fili' del dialogo, dell'incontro, della comunicazione diretta, essendo quella mediatica e istituzionale fortemente corrotta.

martedì 15 giugno 2010

Clint Eastwood ha avuto dalla vita 'tempo' e 'risorse' ...

... ha avuto dalla vita 'tempo' e 'risorse'. Dall'alto dei suoi 'ottanta' afferma di voler essere ricordato come persona che ha voluto cogliere qualche sfida.
Mi piace l'idea della sfida. Sfida nel senso di provare a dare un contributo, a mettere un po' di valore in ciò che ci si trova a vivere; insomma, risultare un po' utili, non transitare invano 'in questi tempi' e 'in questi luoghi'.
Nell'intervista - leggendolo scorrono le immagini di uno dei suoi ultimi film, 'Gran Torino' - esprime l'importanza di cambiare di continuo e cercare sempre cose nuove con le quali cimentarsi. Provare, cioè, ad assecondare l'inevitabile evoluzione delle cose, in particolare dell'identità che - di suo - si oppone ad ogni mutamento.
Mettere in discussione l'acquisito non è facile. Muoversi 'fuori' dalle regole esplicite e, soprattutto, implicite è rischioso e può venire interpretato e vissuto come affronto, talvolta come violenza.
E' più facile muoversi 'dentro', assumere i cliché, e poi difendere e barricare quanto acquisito; è più facile aprire un pacchetto e fingere che è proprio ciò che si desidera, agire cioè la parte assegnata; è più facile, ancora, limitarsi a recitare quel spartito che, una volta al mondo, ci si trova a disposizione.

Foto: 3-5-2 [il giuoco più bello del mondo]

lunedì 24 maggio 2010

C***, può succedere anche a me! ...

Questo è il vissuto - poco razionalizzato - nello stare di fronte ai drammi della vita. Soprattutto nel momento in cui l'evento è così vicino da non poter assumere la veste di 'cronaca'. Viene a galla l'imprevedibilità, la fragilità, l'incertezza, la finitezza della nostra vita. Lucidità subito calmierata e affogata, ripristinando l'idea di una vita definita e scontata, senza sorprese ed inconvenienti.
Roland Barthes esprime chiaramente questo stato e questa fuga: ovunque, per la strada, al caffè, vedo tutti gli individui come destinati-a-morire, ineluttabilmente, vale a dire, molto esattamente, come mortali. E con non minore evidenza, li vedo come ignari della cosa.
Il limite c'è. Sempre. Si esprime nel progressivo e inarrestabile deperimento, ma può scoppiare improvviso in ogni momento. Esiste anche l'imponderabile: può sopraggiungere una frana proprio al passaggio del treno.
Giustino Parisse, nella lettera aperta ai figli morti nel terremoto d'Abruzzo, non può più permettersi di perdere questa lucidità. Non può negare la morte dei due figli. Ed ecco il rimorso di non aver vissuto quanto aveva a disposizione: 'quella passeggiata che non ho fatto con te è uno dei tormenti delle mie notti'.
E poi afferma: 'quando tutto fila liscio sembra che non ci sia mai tempo per fare le cose importanti. Poi, quando le cose importanti ti vengono a mancare ti accorgi di quanto era vuota la tua vita mentre inseguivi il nulla correndo di qua e di là come una trottola'.
La tranquillità data dall'illusione di una vita senza limiti comporta la restrizione della vita stessa.

sabato 8 maggio 2010

Godere del 'bene' altrui ...

... appare anacronistico. Anche illusorio.
Forse non è neppure molto umano: il 'più' dell'uno costringe l'altro a fare i conti con il 'meno'.
Oggigiorno emergono allentati, indeboliti, tutti quei meccanismi sociali e culturali volti a circoscrivere, mitigare, delimitare, filtrare, orientare ... volti a rendere fluidi e costruttivi i processi umani. Il pudore è saltato, la tensione morale è scarsa, il profilo etico è scemato. Vengono a galla i tratti meno nobili dell'essere umano, quelli orientati più a trascinare l'altro con sé nel baratro che ad assistere al suo esprimersi, al suo sbocciare.
E' il venir alla luce di ciò che siamo (anche svelando forme di ipocrisia), oppure un segnale di imbarbarimento?
Michele Brambilla osserva la realtà attraverso il tifo calcistico; fenomeno questo - afferma l'autore - che ha il potere di pescare negli angoli più reconditi dell’anima. Infatti, è più facile cambiare moglie, partito politico e fede religiosa piuttosto che cambiare squadra del cuore. Una fedeltà che è terreno fertile per l'emergere di emozioni generalmente poco autorizzate: la felicità quasi mai appagata e il rancore per lo più affogato.
Noi siamo ciò che siamo: né peggiori né migliori di chi ci ha preceduto e di chi ci succederà. Sicuramente l'alchimia dei tempi non favorisce l'emergere del nostro volto migliore, come se fosse il tempo della destrutturazione più che della costruzione. Probabilmente segnali di decadenza.
Possiamo provare a 'resistere nella deriva': arginare gli eccessi, forse - attendendo tempi migliori - adoperarci a creare i presupposti per quel che dalle macerie potrà nascere.

sabato 24 aprile 2010

La parola e il silenzio ...

sono strumenti di comunicazione. E l'una e l'altro possono 'dare qualcosa' oppure 'dare nulla': paradossalmente la parola può essere 'vuota' e il silenzio 'pieno' (il necrologio di Sandra Mondaini è esemplare).
La parola può essere potente: è molto più capace delle armi di fare breccia (Erri De Luca). Roberto Saviano afferma che la parola ha la capacità di dare cittadinanza universale a quelli che prima erano considerati argomenti particolari, lontani, per pochi. Ma affinché ciò possa accadere la parola deve essere profondamente vera, pronunciata dalla voce giusta e nel momento opportuno. Cioè, la parola in sé è nulla se non incardinata su colui che la proferisce, e se non usata con riconoscimento e rispetto del suo profondo valore, anzi mistero.
L'Italia del 2010 appare 'triste'. L'autore sostiene che solo la parola vissuta come modo per condividere, per aggiustare il mondo, per capire, solo mostrando e facendo vedere la verità, si possa dare dignità al nostro Paese. E ciò può avvenire attraverso un movimento culturale e morale che spinga a sentire la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale della indifferenza della contiguità e quindi della complicità.
Non tutte le parole, però, hanno un simile potere. Oggi la parola è abusata e consumata: siamo in un tempo ciarlatano, in cui le parole vengono pronunciate e smentite il giorno dopo. Queste parole qui contano esattamente lo sputo, il fiato che ci vuole a pronunciarle e scadono subito dopo (Erri De Luca).

sabato 3 aprile 2010

E' potente la prassi di celebrare ...

... religiosamente le tappe della vita umana, dalla nascita fino alla morte. Il ritmo dei fenomeni naturali trova forte concordanza con i riti religiosi dell'anno, sempre posti - questi ultimi - nei momenti di passaggio delle stagioni.
Il linguaggio della religione pervade la nostra vita, fornisce vocabolario e occasioni per la sua espressione.
Gianfranco Formenton, con particolare riferimento alla realtà italiana, si focalizza sulla dimensione 'identitaria' del cattolicesimo 'prendendo per le corna' il tema. Il cattolicesimo emerge come potente criterio di definizione dell'appartenenza: rientrare nei suoi 'sacri confini' significa 'essere a posto', 'essere nel giusto', quindi risultare migliori di chi non lo è. Ecco che diventa più facile aderire che non aderire.
La funzione della religione non può esaurirsi nel fornire un riferimento identitario: solo l'insieme dei diversi aspetti, adeguatamente collocati, conduce ad una visione completa e consistente.
Constato una flebile volontà di effettuare i necessari distinguo, mettendo al loro posto le diverse istanze. Evidentemente l'indistinto non disturba, anzi risulta funzionale.
A me, invece, questa situazione crea disagio. Certamente non accetto di essere considerato migliore o peggiore degli altri in virtù della mia adesione o appartenenza a qualcosa. Questa è una forma di xenofobia.

venerdì 26 marzo 2010

Sono cresciuto in un contesto culturale ...

... dalle profonde radici cattoliche. Volente o nolente il cattolicesimo è diventato un pezzo di me, connota la mia identità. Per alcuni versi ne sono profondamente riconoscente, per altri meno. Nel corso del tempo mi sono trovato sia a far tesoro e capitalizzare questo bagaglio, sia a dover integrare le mancanze, anche riparare le storture.
Gli uomini di chiesa, di conseguenza, si ritrovano ad assolvere ad una funzione educativa di carattere culturale, oltre che spirituale.
La vicenda degli abusi su bambini da parte di sacerdoti rinvia - a detta di Chiara Saraceno - ad una inadeguata concezione della sessualità: la cultura cattolita fatica ad assumere la sessualità come fonte di gratificazione esistenziale. L'editoriale di Le Monde parla di anacronismo: di concezione avulsa dal contesto temporale.
L'autrice citata sopra prova ad individuare ciò che risulta avulso: la concezione del matrimonio come remedium concupiscentiae; la visione del corpo della donna come potenzialmente impuro, rischioso e da sottoporre a controllo; la necessità della famiglia per la sua funzione riproduttiva, ma vincolo alla disponibilità all’altruismo.
Questa vicenda, oltre a portare in evidenza gli errori e la colpa di alcuni e i limiti di alcuni tratti della cultura cattolica, colpisce l'incauto ergersi a 'magistra vitae' presente tra gli uomini di chiesa, soprattutto quando le tematiche sono lontane dal proprio ambito esperienziale.

mercoledì 10 marzo 2010

La seconda carica dello stato ...

... ha parlato di "priorità della sostanza sulla forma". Colui che è deputato a custodire le regole che relativizza le regole!
La vita 'trabocca l'orlo di qualsiasi tazza' (Pasternak), la vita è fatta di regole ma anche di episodi. E' necessario disporre di interpreti delle une e degli altri: chi è deputato a presidiare le regole dovrebbe essere garante dell'istituito con l'attenzione a non bloccare pregiudizialmente il nuovo; chi si pone sul versante del creare dovrebbe esser capace di accogliere l'emergente sollecitando, ma senza destabilizzare, l'ordine precostituito. Entrambi assolvono ad utili e necessarie funzioni.
E' la buona navigazione degli uomini e delle donne dentro questo siffatto mare che crea valore. In altre parole c'è bisogno di contenimento e contenuto, di continuità e discontinuità, di presidio ed invenzione, anzi, c'è bisogno del loro incontro. Solo tenendo insieme, facendo dialogare queste istanze si crea 'bellezza'.
In contrapposizione al cattivo interprete delle regole, ecco che il calcio - eccellente metafora della vita - offre un esempio di buon interprete degli episodi.
Mario Sconcerti, parlando di Mario Balotelli, afferma che "è fondamentale avere un giocatore che strappa la routine della partita e la porta lontano da ogni tattica". Uno, insomma, da usare quando non è più sufficiente mettere in atto una tattica, quando - sempre usando le parole dell'autore - "non vince chi gioca meglio, ma chi sa usare meglio gli episodi, chi sa costruirne di più e di diversi". Ma uno così può anche giocare poco, talvolta anche essere messo ai margini. Lo stesso giocatore, infatti, arriva ad affermare che il suo sogno "è di segnare in una competizione importante all'ultimo minuto. E magari non giocare dall'inizio, di entrare, segnare e vincere".

giovedì 25 febbraio 2010

Mi ripeterò, ma continuo ...

... a sentire il bisogno di trovare vie di fuga dal torpore dell'indistinto che mi circonda. Il dolore - afferma Ilvo Diamanti - si mischia alla speculazione, la tragedia alla corruzione, il pianto è interrotto dalle risa.
Rischiamo di diventare consumatori di avvenimenti o di tragedie, senza che queste ci interroghino, lascino una traccia nella nostra vita. Rischiamo l'assuefazione, anche la rassegnazione, cioè di non sentire le 'cose', né nel cuore, né nello stomaco, né nella mente. Forse siamo già in questa condizione.
Ma non possiamo considerarci solo delle vittime, risultiamo corresponsabili. Questa condizione è anche comoda. Ci toglie un certo imbarazzo. L'assuefazione è funzionale a non sentire le grida degli uomini, la retorica della condivisione e della solidarietà soffoca i sensi di colpa.
Non rimane che tenere i piedi nella realtà, nella vita degli uomini e delle donne. Ci prova Elvira Dones rispondendo al premier italiano di fronte all'ironia sulle 'belle ragazze albanesi'.

lunedì 8 febbraio 2010

Ciao ragazzi. Oppure ...

... colloquialmente, ciao raga.
Questo modo di esprimersi è diventato usuale tra adulti. Trentenni, quarantenni, cinquantenni, anche sessantenni che vicendevolmente si appellano con il termine 'ragazzo' o 'ragazza'.
Benché vicino ai quarant'anni, non mi ritengo un ragazzo! Rivendico, con tutti i miei limiti, lo status di uomo.
Il Sabatini Coletti, solo per citare un riferimento, associa al termine ragazzo il significato di 'uomo giovane di età compresa fra l'adolescenza e la giovinezza'.
Perché si è diffuso un uso di questo termine così dissociato dall'originale significato?
Michela Marzano parla di jeunisme trionfante: la giovinezza come una sorta di 'imperativo categorico' alla quale ci si deve conformare, se non si vuole essere marginalizzati. Ciò comporta l'attenzione ossessiva al corpo, alla immagine fisica, l'autrice arriva a parlare di nuovo 'oppio dei popoli'.
L'autrice fa una ipotesi interessante: è l'incertezza del 'fuori' che ci sta spingendo 'dentro', su noi stessi, e - aggiungo io - risulta più facile soffermarsi sulla forma (fisica) che sulla sostanza. Come se l'esercizio del controllo del corpo permettesse di combattere l'ansia e l'insicurezza sociale; come se esistesse una funzione di rewind della vita che permetta di rivivere suoi passi, sperando magari di riparare ad errori già commessi.
In questo modo viene bandita la successione delle fasi della vita e soprattutto la vecchiaia: mostrare di aver 'consumato' un pezzo della vita è diventato quasi osceno. Il corpo perde sempre più la funzione di memoria, di storia che passa e lascia i suoi segni, anche le sue cicatrici.

martedì 26 gennaio 2010

La sofferenza c'è ...

... E' parte costitutiva della vita. C'è dentro e fuori di noi.
Non è gradita, non piace, viene tenuta a bada; ma accade che trabocchi presentandosi 'nuda' di fronte a noi. E' drammatico viverla, ma anche solo doverle stare vicino, vedere e accompagnare il dolore altrui.
Ecco che non si può più far finta di nulla: viene a galla la compassione, la interdipendenza con gli altri, anche la corresponsabilità. Non possiamo tirarcene fuori.
Ma finché non viene superato quel limite ecco a portata di mano la possibilità di tener a bada ciò che è difficile sopportare. La negazione. Gian Antonio Stella, osservando la vicenda dei raccoglitori di Rosarno riscontra una specularità con il nostro (italiani) essere stati migranti nella prima metà del '900 e parla di rimozione, 'tutto dimenticato'. Risuonano le parole del Presidente Napolitano, nell'odierno memoriale della Shoah: "Non dimenticare è alto valore civile".
E anche quando viene superata la soglia - Michele Smargiassi prende ad esempio la rappresentazione mediatica degli eventi di Port au Prince – ecco la riduzione, la trasformazione del dolore in cliché, con conseguente assuefazione e anestesia della compassione.
E' difficile navigare nella vita, abitare e sentire la realtà.

sabato 9 gennaio 2010

La diversità non va negata ...

... ma nemmeno accolta a prescindere.
La capacità umana di riconoscimento e contenimento della diversità è limitata. Fa quel che può. E il grado di capacità dipende sia dallo 'capienza' individuale, sia dalla 'disponibilità' del contesto sociale, politico, economico e culturale. L'ho provato sulla mia pelle nello stare vicino agli zingari: il 'senso e il significato' dello stare con queste persone sono emersi a partire dal momento in cui ho accettato e vissuto la relazione con l'altro alla 'giusta distanza' (naturalmente il metro del 'giusto' non può che essere soggettivo).
Tale questione risuona nel dibattito di queste settimane a partire dal tema della cittadinanza agli stranieri. L'avvio è una provocazione di Giovanni Sartori seguita - per citare le più rilevanti - dalle considerazioni di Tito Boeri, di Sergio Romano, per arrivare al commento di Angelo Panebianco.
L'importanza - per me - di questi contributi (allego il primo e l'ultimo in ordine temporale) ruota attorno a due concetti. Il primo. L'esplicitazione della legittimità dei diversi sentire verso lo straniero: coloro che lo gradiscono (xenofilo), come coloro che non lo gradiscono (xenofobo). E' legittimo e 'naturale' provare difficoltà nei confronti di ciò che è estraneo (naturalmente altra cosa è agirci contro). Il secondo. La stigmatizzazione della posizione ideologica che porta all'assunzione acritica di una posizione: l'immigrazione è cattiva, l'immigrazione è buona. L'immigrazione non è né buona né cattiva, è un fenomeno che ci coinvolge, che ha assunto dimensioni rilevanti e che quindi bisogna tentare di capirla e, per quel che si può, gestirla.