sabato 6 novembre 2010

L'ideologia della condivisione

Bisogna condividere. E' un imperativo, un assoluto.
Questo concetto ha avuto fortuna nell'ambito del cattolicesimo, in particolare del cosiddetto catto-comunismo - pensiamo alla fortunata frase di Tonino Bello 'convivialità delle differenze' - per arrivare poi a permeare il gergo quotidiano, anche quello professionale e istituzionale.
Il significato etimologico rinvia alla "adesione, partecipazione a idee o sentimenti altrui". Insomma, allo stare e al sentire in profondità l'altro per quello che è; un atto, insomma, di profondo riconoscimento.
Il termine appare oggi usurato, abusato, svuotato; ha perso consistenza diventando mera tecnica per stare ed agire efficacemente 'dentro le cose di questo tempo': l'altro e la sua diversità, di fatto, non sono valore ma ostacolo da aggirare abilmente.
Il nostro tempo, articolato e complesso, ci pone inesorabilmente di fronte al concetto di limite: l'attrezzatura teorica per affrontare la diversità, come afferma Umberto Curi, si sta clamorosamente indebolendo, al suo fascino si sostituisce un senso di nausea e di estenuazione. Non reggiamo più la diversità e abbiamo il bisogno di allontanarla, tenerla distante, anche negarla. La democrazia stessa, afferma Angelo Panebianco, risulta incapace di contenere tutta questa quantità e qualità di diversità.
Lungo il mio percorso spesso ho tentato di mettermi di fronte alla diversità: in alcuni casi ci sono riuscito, in altri ho fallito. Sicuramente non ci sono riuscito con gli zingari: mi sono accostato a questo 'mondo', ho provato a starci dentro sentendomi più tollerato che accettato, fino ad arrendermi accettando di non stare dove nessuno mi voleva.
Non ritengo sia un dramma non riuscire ad accogliere la diversità, è più pericoloso assumere una posizione ideologica: dal 'dagli allo straniero' all' 'amore incondizionato senza se e senza ma'.

1 commento:

  1. Secondo me si parte dall'assunto sbagliato che ci sia "paura dello straniero".
    Non condivido questo punto di vista, anzi, ho le prove che sia completamente sbagliato.
    Chi di noi ha paura di un Francese? Un Inglese? Un Tedesco o un Americano??
    Il problema non è l'etnia o la provenienza geografica, il problema è quella che io considero una "mancanza di reciprocità".
    Mi spiego meglio.
    E' mia abitudine, quando visito o risiedo (meglio o risieduto) in paesi stranieri, rispettare la "casa d'altri". Cerco di comportarmi al meglio, di non urtare la loro suscettibilità e di rispettare i loro usi. Generalmente, ho visto, questo viene apprezzato e, nei paesi con un adeguato livello di civiltà, solitamente viene ricompensato con rispetto e tolleranza.
    Poi ci sono tutti gli altri paesi, le altre etnie, quelle che io non considero "civili". Intendiamoci, il termine "civiltà" non significa molto, tutto dipende dal significato che noi gli diamo.
    Io non ho paura dello straniero, anzi, lo considero una ricchiezza sopratutto per un paese presuntuoso come il nostro che, dall'alto dei suoi millenni di storia (ma dimentichiamo che non abbiamo più quello splendore) ritiene di non avere nulla da imparare. Da noi c'è la meglio cucina, da noi ci sono più opere d'arte che in tutto il resto del mondo, da noi.... E allora??
    Io tifo per un mondo interraziale e interculturale. Ma voglio che sia un mondo dove i miei usi e costumi siano rispettati così come io rispetto quelli altrui.
    Io rispetto quelle che, nel mio intimo, considero le barbare usanze dei paesi islamici nei confronti delle donne. Non mi devono piacere e non pretendo di capirle. Le rispetto. Ma non trovo reciprocità quando loro non rispettano le mie. Quando cominciano a pretendere che io cambi le mie usanze, le mie regole per soddisfare la loro barbara esigenza di segregazionismo (es. classi separate per maschi e femmine o orari di apertura delle piscine per maschi e femmine).
    A casa mia non si usa così.
    Alcune settimane or sono ho conosciuto un ebreo ortodosso.
    Una persona squisita e meravigliosa che rispetta le indicazioni della sua religione senza invadere lo spazio personale altrui.
    Non si lamentava del fatto di non trovare la carne preparate secondo le sue prescrizioni o del fatto che io il sabato lavoravo mentre per lui era di completo riposo.
    Lui ed io riuscivamo a condividere degli spazi nel rispetto reciproco.
    Allora mi viene da dire. Non è lo straniero che fa paura. E' lo straniero arrogante che infastidisce. Lo straniero che viene a casa mia ma vuole dettare le sue regole. Non chiede permesso ma butta sul tavolo i suoi usi e costumi.
    Mi dispiace, non ho mai creduto al buonismo filosofico. A casa mia sono io che detto le mie regole.
    E quello che succede in Europa, oltre ai proclami buonisti (e falsi) di certe correnti politiche e/o religione, sembra darmi ragione.
    Pierluigi

    RispondiElimina